Scritto da 08:16 Chilometri diVini, Viaggi

Chilometri Divini: Incontro con Francesco Guccione

Continua la nostra rubrica Chilometri diVini sui territori del vino a cura di Assunta Casiello, avvocato, sommelier e wine trotter. Con lei oggi incontriamo Francesco Guccione dell’omonima Azienda Agricola di Monreale

Secco, arso, rovente, quasi accecante il caldo di quella giornata, in visita da Francesco Guccione, proprietario dell’omonima azienda.

Quindici anni fa, a Monreale, in contrada Cerasa, Francesco ha preso le redini di un antico feudo nobiliare retaggio di un’eredità di famiglia, e da allora ha iniziato a plasmare i poco più di 10 ettari di terreno acquisiti (di cui 6 vitati) a sua “immagine e somiglianza”.

L’immagine è, come lui stesso mi spiega, quella di un centro concentrico che parte dai crismi della biodinamica come creati dal filosofo esoterico Rudolfl Steinere dal suo primo allievo Nicolas Joly ( tra l’altro, piccola digressione, proprio ieri, bevevo un Close de Serraunt, passatemi il termine, “fotonico”).

Ed è così  che nel 2005 questo “modus vivendi”  entra anche nei  vigneti dell’Azienda Agricola Guccione e conquista un posto nella Renaissance des Appellations, che ad oggi persegue e persiste i principi di Steiner lungo l’intera nostra penisola tra sole 47 aziende associate.

Entro allora nel “primo cerchio”, nei suoi vigneti, dove tutto nasce e ho la sensazione di essere un personaggio dei libri di Sciascia: gli occhi incrociano il giallo della paglia, l’erba bruciata dalla luce, il nero del terreno (marne argillose e sassi) che evapora calore e un’ondata di verde vivo regalata dalla vigna.

Siamo a 500 metri s.l.m. e Il sole non conosce clemenza. Ci regala un po’ di ombra solo il sistema a tendone delle sue vigne di trebbiano: tre ettari dedicati solo per questo vitigno, originario sin dal 1400 in queste zone.

Sistema invece a Guyot, tra l’altro oggi anche in fase di mutazione in cordone speronato, per le altre sue vigne (sempre sane, anzi sanissime) di Perricone, Nerello MascaleseCatarratto (per una produzione complessiva di (solo) 16.000 bottiglie.

Mentre parlo con Francesco, l’afa viene spezzata da un timido, ma quanto mai salvifico, refolo fiacco di vento, proveniente da Castellamare del Golfo, che pare portare con sé una secchiata di acqua salmastra con un naso che si inebria di iodio e odore di alghe.

E allora se questa è l’immagine, la somiglianza invece sta nell’eclitticità che scopro nel vignaiolo, in Francesco, e ritrovo, poi, nelle sue bottiglie.

Entro così nel “secondo cerchio”: la sua cantina, a San Cipirello (appena 5 minuti di auto dalle sue vigne), creata pochi anni fa, a seguito di una divisione dell’azienda agricola, che ad un tempo era gestita anche con altri soci.  Regola omnia in questa cantina e che vale per tutti i suoi vini: fermentazioni spontanee, continui rimontaggi e follature, senza chiarifiche o filtrazioni. Una minima dose di solforosa solo in fase di imbottigliamento. Salvo che non sia necessaria anche in fase di affinamento qualora ci sia una riduzione più percepita.

Nove sono le sue referenze, tra monovitigni in purezza, blend di uve a bacca nera e bianca, e cuvéé di trebbiano. Insomma sperimentazioni continue, che non credo siano tese alla ricerca dell’optimum, ma immagino solo a soddisfare la curiosità continua di una mente umana: migliorare ciò che si fa, come memento per migliorare noi stessi.

E partendo dalla miglioria, vi racconto in ordine sparso e non gerarchico, alcuni assaggi. Senza, in ogni caso, stabilire, il migliore, non essendo comparabile, a mio sommesso avviso, ciò che ogni anno la natura decide e il vignaiolo accetta.

 

“T 14” –  in botte

Una blend di trebbiano 2014 con qualche filare di malvasia che ha iniziato la sua fermentazione in questa botte sei anni fa e lì è rimasto, senza mai conoscere staticità in ogni caso.

Vino “giurassiano”, e, vi assicuro che non è la mia solita defezione mentale verso quella terra, ma è lo stesso Francesco che mi conferma l’analogia. Gli odori di paglia, gli odori “spessi”, quasi materici, che pare di toccarli più che annusarli. La melassa che si scioglie alla velocità di un bradipo, poi scatto da runner con una zaffata di sale e rosmarino. Spettacolo estasiante per narici che non sanno più dove contenere e goduria al palato che vive di beva acida e salina.  Unica nota dolente … è ancora in botte (scolma). Francesco sta cercando la perfezione per la sua immessa al commercio, anche se, per me, è già ampliamente arrivata.

“12/13””

12/13 non è un algoritmo, ma una cuveè di solo Trebbiano di due diverse annate: Francesco fa fermentare la sua annata 2013 sul vino già svolto del 2012. Il risultato è una mixology di odori vivi: terziari che diminuiscono la loro potenza olfattiva solo grazie a un taglio verticale di mineralità, che si percepisce al naso e diventa poi conferma al palato. Una leggera carbonica che lo rende unico.  In commercio solo 8000 bottiglie, che io tenderei a definire di estasi delirante.

 

“15/16”

Qui il sorso è più leggero e la rotondità è appagante.  Se la 2015 è stata un’annata da ricordare in tutta Italia, direi che la 16 può, salvo dovute eccezioni, essere anche un po’ dimenticata.  Ed infatti, facendo una comparazione, ma solo perché gli assaggi si sono susseguiti, vi dirò che il suo “12/13” sbarca sulla luna mentre il “15/16” è per noi umani. E a me piacerebbe vivere su un ambiente lunare (forse ci sono forme più interessanti di quelle umane)

“C 2019”  – in botte

Premetto che per il Catarratto vinificato in purezza, sono facilmente suggestionabile, e dunque mai sarò oggettiva (semmai lo fossi mai stata). Vino pulitissimo, e ben inteso, non intendo standardizzato nei suoi profumi che invece paiono sviare il degustatore (alla cieca difficile pensare che si tratti di un catarratto davvero): il mio simposio si compone di limoni di pane di Procida (e tutto il mondo è paese), di scorza di pane caldo e di bignè. Non sono folle, so che non sono gli odori tipici del Catarratto, ma ben venga, che in questo calice il vignaiolo ha saputo anche firmare il suo terroir. Merito, forse, anche della scelta di vinificazione che fermenta e affina sempre nello stesso tino di legno.

Il sorso?  coerenza tra naso e bocca difficile da trovare anche in un hegeliano. E il gusto? Mi aiuta Sciascia a descriverlo, visto che in questo viaggio, non sono riuscita a fare a meno di lui: “essere soddisfatti nel bere e nell’aver bevuto. Non avere più sete. Semplicissimo”(Todo Modo – 1974-Adelphi).

In vendita ora la 2017 e la 2018, poco più di 3000 bottiglie.

 “NM 19”  – in botte

A mia convinzione il Nerello Mascalese ha tannini setosi, profumi eleganti, boquet sottili e delicati. Di talché confido in quanto sarà e non in quanto è oggi: un tannino ancora un po’ allappante e un naso leggermente polveroso, ma la stoffa del campione è già la veste di questo calice, buona acidità presagio di longevità.

 “P” 2019”

Vi anticipo: vino assoluto!

Normalmente il Perricone è considerato il vitigno “sfigato”, per la sua poca “propensione” (dicono) a raggiungere picchi di finezza in purezza. E allora, in genere, fungono da validi aiutanti o il nero d’avola o il nerello mascalese. Eppure il mio sorso in “solitudine” è la conferma che non bisogna mai “continuare a farsi scegliere” ma deve arrivare il momento in cui “finalmente sceglierai” (semicit. di Fabrizio De Andre”).  Questa volta, infatti, il Perricone ha scelto e ha scelto di farsi conoscere nella sua individualità, che rivela un sorso fine, acido, voluttuoso. Finezza ed eleganza e la mia mente ha rimandato durante quell’assaggio, all’immagine di un carillion, una ballerina intenta nella seconda posizione di danza. Ecco, questo perricone non è solo una ballerina, è l’etoile. Per me un assaggio che ancora ora mentre scrivo mi destabilizza. Solo 900 litri che tra poco verranno imbottigliati.

Saluto Francesco, la sua vita, la sua filosofia e saluto Monreale, fa troppo caldo, vado al mare ora. Ma ancora una volta mi accorgo che queste conoscenze abbeverano l’anima, alimentano la mente. E ad ogni buon conto è di nuovo Sciascia che mi ricorda che, non mi allontanerò tanto dai  vini di Francesco pur andando ora al mare: “Il mare colore del vino: ma dove l’ho sentito?’ si chiedeva l’ingegnere. ‘Il mare non è colore del vino. …Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza”( Il l mare color del vino – Adelphi – 1973)

 

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