Ci sono uomini che nascono con la camicia. Che sia fortuna, destino, meriti guadagnati in altre vite o vinti alla roulette della nascita, Lucio Tasca D’Almerita era nato con una camicia di popeline azzurro, colore che gli donava assai.
È morto ieri, a 82 anni, per le conseguenze di una brutta polmonite. Un guaio costruito meticolosamente in decine di anni da fumatore accanito. Difficile stornare gli aggettivi ruffiani dal racconto del viticoltore più charmant dell’enologia italiana: bello, intelligente, raffinato, irrimediabilmente snob e carnalmente mediterraneo, dotato di quell’ironia guascona eppure colta che lo rendeva irresistibile agli occhi delle signore come a quelli dei colleghi di impresa. A lui va il merito di aver sdoganato i vitigni internazionali in terra di Sicilia con i suoi rari ma amati compagni d’avventura: Giacomo Rallo e Diego Planeta. Una scelta forte, per certi versi scandalosa, decisa e difesa in nome del diritto di andare oltre, senza rinunciarvi, alla sicilianità nobile del padre Giuseppe, mirabilmente espressa nel Rosso del Conte (Nero d’Avola al meglio di sé).
Ma il conte Lucio – impossibile privarlo dell’appellativo nobiliare, che gli calzava come un guanto – è stato molto altro. E’ l’uomo che ha assorbito i concetti della nuova enologia, non per mera ansia di guadagno, ma per proiettare se stesso (e in scia l’intero movimento del vino isolano) oltre le colonne d’Ercole dello stretto di Messina. A metà degli anni ’80, mentre la Toscana mandava in passerella i superTuscan (Sassicaia, Tignanello e poi Solaia, Lupicaia, ecc), la Sicilia ne diventava l’alter ego naturale, tra vendemmie all’alba e furgoni refrigerati, barriques e vinificazioni a temperatura controllata, presse soffici e potature verdi, fermentazioni in acciaio e lunghi riposi in bottiglia. Un allargamento di orizzonti impensabile fino a un attimo prima e seguito da un corollario di pratiche innovative, dalla comunicazione integrata – grazie a Ivo Basile, figlio enologico del conte – ai software di gestione, dall’ospitalità alla sostenibilità vera, impostata e sviluppata con la collaborazione del grande Attilio Scienza e oggi corroborata dalla fondazione Sostain Sicilia.
Niente di banale nella sua vita, dal collegio svizzero alla nazionale di equitazione su su fino ai figli: Franca, Alessandra, Alberto – ormai responsabile a tutto tondo dell’azienda – e Giuseppe, che si occupa di Villa Tasca. A loro la responsabilità di percorrere i sentieri tracciati dalle orme paterne: e allora via libera alle vigne sull’Etna e a quelle dell’isola di Mozia, la tenuta di Sallier de La Tour e quella odorosa di sughi e marmellate – merito della scuola di cucina – a Regaleali. Il tutto coronato da quel gioiello che è il buen retiro vignaiolo (e molto zen) di Capofaro a Salina. All’ultimo Vinitaly il conte Lucio era apparso stanco, poco coinvolto, come se il grande gioco del vino non lo divertisse più. Succede a volte quando si è vissuto tanto intensamente da non prevedere riduzioni del piacere di sé. La terra di Sicilia, tanto amata e valorizzata dalle sue intuzioni geniali, gli sarà lieve e profumata di zagara, oh yes.
Licia Granello è torinese di nascita e napoletana per scelta di vita. Scrive libri e tifa Toro. Su Repubblica ha scritto a lungo di calcio e di cibo. Oggi collabora con Grande Cucina, Vanity Fair e Wine&TheCity