La storia di Maida Mercuri e del suo Pont de Ferr che chiude dopo 35 anni.
“Tu sei la mia anima gemella del vino”. L’esclamazione, a metà tra la dichiarazione d’amore e l’Oscar al sapere enologico, è di Joseph Roca, proprietario e straordinario sommelier del Celler De Can Roca, tre stelle abbondantissime in quel di Girona, Spagna, a chiusura di una cena cominciata al tramonto e finita all’alba ai tavoli del Pont de Ferr. La destinataria di tanta passione alcolica era Maida Mercuri, la patronesse dello storico locale che ha chiuso il 28 febbraio. La fine del Ponte – locale-culto nel cuore dei Navigli milanesi – ha gettato nello sconforto i tanti appassionati che per trentacinque anni si sono letteralmente abbeverati alla cantina e alla maestria di Nostra Signora dei Navigli. Il tutto, con il conforto di una cucina golosa e mai banale, arrivata perfino a conquistare una stella Michelin, a dispetto delle tovagliette di carta e dei servizi esterni (allora).
Una storia straordinaria, quella della Rossa più celebre di questo quartiere, bello e maledetto. Per definirlo bello, basta percorrere i margini dei suoi canali a piedi o in bicicletta in una mattina qualunque, meglio se assolata (ma questo vale per tutti i posti della terra). Maledetto perché negli anni è stato di volta in volta popolare, negletto, dimenticato, risollevato, osannato e adesso di nuovo in crisi d’identità. Maida la Rossa ci è arrivata a metà degli anni ’80, dopo essere la stata la donna sommelier più giovane, ammirata e contesa d’Italia. Su tutti, tra una degustazione all’hotel Michelangelo e il servizio di sommellerie alla tavola di Papa Giovanni II, la voleva Sirio Maccioni, deus ex machina di Le Cirque, ristorante-culto di Manhattan.
Ma quelli erano i mesi che seguivano l’orribile vicenda del metanolo – ventitrè morti e decine di persone gravemente lesionate a causa del vino adulterato – e per una ragazza che si era innamorata del vino come del principe azzurro nelle fiabe, trasferirsi a New York sarebbe suonato come un tradimento. Molto più eccitante affrontare la sfida delle sfide: servire al bicchiere i grandi vini italiani, magnifici ma pressoché inaccessibili, soprattutto per i più giovani. Qualche anno dopo, l’originaria “osteria con cucina” si era già trasformata in ristorante con cantina da urlo. E da urlo era anche la sua proprietaria-sommelier, pronta ad ammaliare i clienti della Milano-bene con i suoi percorsi enologici strepitosi e a stappare bottiglie altrettanto pregiate per i ragazzi arrivati al Ponte con i soldi contati in tasca, capace di discettare in un francese fluente con gli appassionati di Borgogna e di giocare fino alle ore piccole a carte con Gianni Mura (quasi sempre vincendo, cosa che Mura gradiva pochissimo).
Non c’è grande cuoco né produttore di valore che non la conosca, protagonista ridanciana e acclamata nei grandi eventi dell’enogastronomia, dai congressi spagnoli alla Festa a Vico. Il guaio è che da donna sola al comando ci si consuma e arriva un momento – complice il decadimento dei Navigli, diventati il regno degli apericena a dieci euro (sic) – in cui si comincia a pensare che la vita sia anche altro. Per la sommelier che negli anni ha incantato gli studenti di Suor Orsola Benincasa con le sue lezioni al corso di Comunicazione e Cultura enogastronomica è arrivato il tempo di trasformare il lavoro in un magnifico hobby. Perché Maida senza un bicchiere in mano è come Picasso senza pennello. Semplicemente impossibile.
Licia Granello è torinese di nascita e napoletana per scelta di vita. Scrive libri e tifa Toro. Su Repubblica ha scritto a lungo di calcio e di cibo. Oggi collabora con Grande Cucina, Vanity Fair e Wine&TheCity