Scritto da 12:25 Non solo vino

I Romani, il vino e i fasti di Oplontis.

Con questo racconto inizia il nostro viaggio con Le Capére tra arte, archeologia e vino. Le Capére. Donne che raccontano Napoli è un progetto di Laura e Valeria, guide turistiche abilitate della Regione Campania, ma soprattutto donne appassionate della loro terra e con una grande voglia di raccontare ciò che molte volte è invisibile agli occhi dei turisti e dei napoletani stessi. Come “le capére”, le parrucchiere di una volta che acconciavano le teste delle nobildonne snocciolando aneddoti e pettegolezzi curiosi, oggi ci guidano con la loro verve alla scoperta di luoghi e itinerari insoliti in Campania. 

 

Con un buon calice di Lacryma Christi iniziamo questo viaggio nell’area vesuviana alla scoperta di uno dei siti archeologici più belli e meno noti della Campania: Oplontis, sepolta insieme a Pompei, Ercolano e Stabiae dall’eruzione del Vesuvio del 79 c.C.

E cominciamo proprio con un “inciucio” da capére. Che origine ha il nome di questo celebre vino, prodotto alle pendici del Vesuvio? Il Lacryma Christi ha un nome legato ad una antica leggenda: Lucifero deciso a portare all’Inferno un pezzo del Paradiso terreste, pare avesse scelto proprio il Golfo di Napoli, e Cristo ne pianse tantissimo. Dalle sue lacrime sarebbero nate quelle vigne da cui, ancora oggi, viene fatto il rinomato vino. 

La tradizione enologica della Campania ha origine antichissime che risalgono ai tempi dei Greci, i primi ad introdurre i semi della vitis vinifera; tuttavia furono i Romani a sviluppare appieno le potenzialità vinicole della Campania Felix impiantando, tra le altre, le varietà di viti dette “Vesuvio” che secoli dopo daranno vita al famoso Lacryma Christi. E proprio il sito archeologico di Oplontis racconta molto della produzione di vino al tempo dei Romani. 

Il sito, che oggi ricade nel centro della moderna città di Torre Annunziata, comprende la splendida Villa di Poppea e una villa rustica detta “B o di Lucius Crassius Tertius”. La Villa di Poppea, stando ai ritrovamenti, sarebbe appartenuta a Poppea Sabina, seconda moglie dell’imperatore Nerone. A Oplontis, come nell’area flegrea o nella zona dell’attuale Posillipo, i Romani costruirono ville d’otium: residenze maestose negli spazi e nelle decorazioni, ricche di aree verdi e luoghi dove rilassarsi e tentare di raggiungere la tanto agognata serenità interiore. La Villa di Poppea conserva, pressoché intatti, ambienti ed affreschi di grandissimo pregio, ma, sulle tracce del vino, vogliamo portarvi a conoscere la Villa detta B o di Lucio Crassio Terzo, scoperta casualmente solo nel 1974. 

Solo la fantasia può guidarci in questo sito dato che ancora oggi i visitatori non hanno accesso e solo gli archeologi possono testimoniare la bellezza che l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ha reso immortale. 

La villa B era un vero e proprio centro di smistamento dei prodotti delle campagne pompeiane che vi  arrivavano dalle ville rusticae circostanti, come la famosa villa dei Misteri di Pompei, così dette per le diverse attività produttive che vi si praticavano: da questi luoghi le merci venivano acquistate all’ingrosso e poi spedite verso altri mercati. 

La struttura, dalla quale dunque veniva molto probabilmente smerciato un vino prodotto dalla vite che Plinio chiama “amina gemina minor”, si sviluppa su due piani con un porticato a due ordini di colonne doriche in tufo grigio di Nocera ed è ricca di stanze, quasi certamente magazzini, dove sono state ritrovate più di quattrocento anfore vinarie, messe ad asciugare per poi essere riempite. Questo indizio ci fa ben pensare che l’eruzione del Vesuvio non sia avvenuta a fine agosto, ma, stando ad un codice rinvenuto nella Biblioteca dei Girolamini di Napoli, in autunno, precisamente “nove giorni prima delle calende di novembre”, tra il 23 e il 25 ottobre del 79 d.C. 

La vendemmia era finita e si aspettava la fermentazione del vino che veniva interrato nei vasi, i dolia, o direttamente nelle anfore, così da poter invecchiare durante il trasporto verso empori lontani. Dopo duemila anni gli archeologi hanno ritrovato in questa villa tutto il necessario per la produzione e la lavorazione del vino: dolia di varie dimensioni, le ollette, pentole utilizzate per il travaso del vino e un oggetto curioso, il cosiddetto anforisco. Potremmo definire quest’utensile un moderno cavatappi di terracotta. 

Ed ecco che il tempo rallenta, possiamo chiudere gli occhi e ritornare a duemila anni fa, quando il vino prodotto alle pendici del Vesuvio veniva mandato nelle province dell’Impero per portare sulle tavole dei banchetti quella ricchezza di sapori, aromi e gusti che ancora oggi il nostro calice ci restituisce. 

E allora, calice alla mano, beviamo pensando a ieri e brindiamo a quel domani che ci vedrà passeggiare per i resti di un sito archeologico ancora tutto da scoprire.

Valeria Cacciapuoti

Laura Capozzi

 

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