Scritto da 12:00 Chilometri diVini, Viaggi

Viaggio a Ponente: alla ricerca del Rossese di Dolceaqua

C’è “Vite” in Liguria! Nella fitta coltre nebbiosa di conoscenza che stagna sulla Riviera ligure di ponente un viaggio alla scoperta del Rossese di Dolceacqua.

In origine fu Veronelli a tracciare le coordinate da seguire lungo questa fascia costiera, indicando quali erano le uscite tra le statali della Riviera ligure, e così ci ricordava de “la Granaccia di Quiliano, il Pigato di Albenga, il Rossese di Campochiesa, il Vermentino del Savonese e di Imperia.

Poi d’improvviso l’oblio si è stagnato sul Ponente Ligure enoico, come se da Genova fino a Dolceacqua fosse crollato un altro gigantesco ponte Morandi. Di Liguria se ne è parlato sempre poco e quando se ne parlava non era mai così tanto in bene. Quella tendenza mercantile degli ultimi decenni a concepire “vini di pronta beva” forse non aveva così tanto giovato alla Regione. Eppure, eppure, oggi assistiamo ad un cambio di rotta, con un vento che spira di nuovo da Ponente grazie a vini espressivi prodotti da vignaioli che hanno saputo ricongiungere quel filo che si era spezzato tra il passato e il presente.

Il nostro viaggio parte e termina in un comune italiano di appena 2092 abitanti della provincia di Imperia, alla ricerca di un qualcosa, o, meglio, di un qualcuno: il Rossese di Dolceacqua. Già perché questo vitigno porta con sé la sua stessa carta di identità. Rossese è, infatti, il nome proprio di un vitigno autoctono che cresce rigoglioso nel comune di Dolceacqua e in alcuni comuni limitrofi, arrivato probabilmente tramite il porto di Messalia, l’attuale Marsiglia, grazie agli scambi commerciali dei Greci, e diffusosi poi con l’operato dei monaci benedettini.

La cosa sorprendente è che non se ne vanta, anche se sconfortante, in realtà, è che sia poco vantato, ma questo, forse, solo perché la Liguria pare più conosciuta per la balneazione che per la vinificazione. Ed è qui che sta l’inghippo. Questa è una terra di vini effetto sorpresa, che profumano di vento, di erbe da cucina, di note salmastre, che sanno di sale, che rinfrescano dalle arsure. Non è la ricetta di una limonata, ma il risultato ultimo di chi coltiva Rossese in questo lembo di paradiso: una linea perpendicolare che dal cielo arriva a Ventimiglia e crea un divisorio tra la valle Roya e quella del Nervia. Il tutto in pendenze vertiginose dove ulivi e viti paiono aver dimenticato la gravità.

Le altitudini infatti, sono da capogiro e la Tramontana che spira e che arriva dai vicini ghiacciai francesi del Clapier, distanti a meno di 20 km, viene raggirata con sistemi di allevamento ad alberello con vigne che crescono basse e grosse affondando le loro radici nello “Sgruttu” così chiamato in dialetto quella lunga fascia di terreno argilloso che nel tempo solidificandosi si è screpolato in scisti.

Ed è proprio lo sgruttu il miglior alleato per il Rossese, che avendo un minor potere drenante rispetto alle sabbie rende mento stressanti per la vite l’avvento di stagioni aride e secche molto frequenti in questo lembo di Liguria.  L’attenzione al territorio è diventata sempre più in crescendo se sol si pensa che per la DOC Rossese sono stati individuati ben 33 cru/mga  (un’opera di zonizzazione che in Italia, al pari,  è stata creata soltanto in Piemonte).

E la coscienza e la memoria di questo territorio sono affidate a due vignaioli, senza i quali oggi non staremo neppure qui a parlare di una DOC per il Rossese (che tra l’altro è stata la prima Denominazione di tutta la Liguria): Giobatta Mandino Cane, vignaiolo classe 1928 e Emilio Croesi (1912-1986), magnificato da Veronelli come uno dei più talentuosi produttori italiani. Oggi questo bagaglio di cultura è portato avanti da soli 31 produttori, tanti, infatti, sono gli agricoltori che hanno creduto in questo Vitigno. Io ve ne segnalo alcuni, non perché gli altri non siano meritevoli di essere segnalati, ma solo perché non ho avuto ancora il piacere di assaggiare i vini di tutti e 31.

Comincio col mio caposaldo. Si chiama Testalonga.

Questo il soprannome attribuito alla famiglia Perrino, e dunque oggi anche ad Antonio, detto Nino, patron dell’omonima cantina e che dal 2004 si arricchisce di una quota rosa con l’ingresso di Erica, sua nipote. Chiamarla cantina forse è un eufemismo, la magia si crea in uno spazio che è poco più grande di una stanza: con qualche botte di legno qua e là. Inutile parlare di tecniche di vinificazione, Nino era già biologico prima ancora che si inventasse questo termine.  Da qui, e precisamente dalle vigne situate ad Arcagna e Casiglian, ogni anno escono fuori non più di 6000 bottiglie suddivise tra Vermentino e Rossese. E parlando ancora di numeri, 60 sono le vendemmie che Nino ha sulle spalle, ma a trovarla un’annata uguale alle altre. Come il suo Rossese di Dolceaqua 2018 figlio della sua stessa annata.

Un naso fresco e sottile, seppur con una punta di acidità volatile in esubero. Profuma di radici, pietrisco, ciliegia, caffè e sale. Bocca tannica eppure agevole, con un rimando finale verso l’amaro. A ricordo, poi, note di tè e di eucalipto e la freschezza, continua, mentre tutta la struttura rimane coerente fino alla fine. Una fine che pare lunghissima per quanto è persistente.

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Proseguendo sulla SP64, in appena dieci minuti, una tappa obbligatoria è da Tenuta Anfosso che da generazioni si fa custode di un pezzo di questo areale. Era il 1888, infatti, quando Giacomo Anfosso mise a dimora le prime vigne di Rossese, lì ai Pini di Soldano e oggi Alessandro e sua moglie gestiscono un totale di 4 ettari tra l’appena citato cru di Soldano e quello di Luvaira.

Ed è proprio un Luvraia del 2018 che sorprende. Vino proveniente da vigne impiantate nel 1905, dove l’altitudine è così elevata da non far arrivare in maniera diretta neppure l’aria marina. Affina solo in acciaio e si presenta in una notevole eleganza che sa di rosa appassita, bacche selvatiche, oli essenziali e un cenno di resina.

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Rimanendo a Luvraia, i cui vigneti insistono nella frazione di San Biagio alla Cima, è poi la signora del Rossese, Giovanna Maccario che con la sua azienda Maccario Dringenberg  sorprende, anche per il suo saper camminare in vigna con i tacchi a spillo. Giovanna rappresenta la quinta generazione familiare di produttori e se tutte le referenze sono degne di essere menzionate, spezza il fiato un calice che è frutto di un “gran cru”: il Curli 2016. Non a caso, ho utilizzato il termine “grand cru”, visto che in passato Curli fu definito dal grande Veronelli “la Romanèe Conti” dell’Italia (cioè il vigneto più pregiato di Vosne-Romanée, in Borgogna).

Il suo naso è un ibrido tra la sua gioventù e la sua maturità, tra i profumi di un’innocente fanciullezza che sanno di mirtilli freschi, iris e glicine, e poi quelle stesse molecole di ossigeno che riportano ai sapori e agli odori di erbe aromatiche. Non è frutto di “illusione” quanto il naso ha avvertito, né di particolare suggestione: nei suoi appezzamenti Giovanna, infatti, lascia tutto “così com’è”: così a tratti di bosco incolto si alternano i vigneti immersi nella vegetazione tipica della gariga tra arbusti e piante di rosmarino, timo e ginestra. Bocca che sferza di freschezza e si accompagna a un tannino fitto, ma mai scontroso. Una beva che va in crescendo ad ogni sorso.

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E arrivando ad Arcagna, lungo il crinale occidentale della Val di Nervia, è il rockettaro del Rossese, Filippo Rondinelli di Terre Bianche che firma queste terre in maniera incommensurabile anche nelle sue versioni in bianco di Pigato e Vermentino. E’ dal 1870 che tra quei terreni si produce Rossese. E la sua interpretazione del 2018 è quanto esattamente accaduto in quell’anno, una stagione calda e siccitosa, con piogge alternate nuovamente a caldo. Tutto ciò ha dato buone rese e un buon grado zuccherino limpido al colore e aromaticamente ammaliante. Salgono dal bicchiere sbuffi di incenso, china, mandarino e bacche e poi un’efebica purezza si dipana al palato. Sorso che sa regalare bellezza.

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Termina qui un elenco che val la pena di rifocillare, ma ripensando alla poca vanità di questo vitigno e al pari al suo immenso potenziale, l’aggettivo più consono per definirlo, fu di Mario Soldati, che nel discettare di Rossese e della sua bontà conosciuta dai pochi lo definì un “vino privato”.

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